E’ il cambio automatico “propriamente detto”, il più diffuso, dal momento che le prime applicazioni in campo automobilistico risalgono agli anni Cinquanta, quando fece la sua comparsa nel mercato degli Stati Uniti su vari modelli Ford, General Motors e Chrysler. Sebbene nel corso della storia dell’automobile siano stati ideati molti tipi di cambi automatici, quando parliamo di automatico classico ci riferiamo al cambio idraulico con convertitore di coppia e rotismi epicicloidali. Cosa si nasconde dietro a questi astrusi termini tecnici?
Essi sono il cuore, gli organi vitali di un cambio automatico.
Vediamoli in dettaglio.
Il convertitore di coppia è un dispositivo idraulico che fa, in pratica, le veci della classica frizione impiegata nei cambi manuali tradizionali: il suo compito è creare un accoppiamento, più o meno solido, tra il motore e il cambio stesso.
L’aggettivo “idraulico” deriva dal fatto che per espletare la sua funzione, il convertitore di coppia utilizza un fluido, generalmente un olio poco viscoso.
Il convertitore si presenta come una grossa e robusta “ciambella” metallica al cui interno possono essere individuati due elementi dalla forma anch’essi a ciambella.
Da un lato, collegata direttamente albero motore, troviamo la pompa, dall’altro, connessa all’albero di ingresso del cambio, si trova un motore idraulico o turbina. Le due parti sono molto vicine tra di loro ma non in contatto, e sono immerse nel fluido.
Sia la pompa che la turbina sono provviste di palette che formano dei canali disposti a raggio ma con una certa inclinazione (un po’ come una stella con le punte curvate) all’interno dei quali è obbligato a scorrere il fluido seguendo un determinato percorso
La pompa, posta in rotazione dal motore, raccoglie il fluido al centro e lo spinge, per effetto della forza centrifuga, verso l’esterno imprimendogli anche un moto vorticoso.
Il fluido viene quindi raccolto dalla turbina, ma ora entra dalla periferia ed è guidato dai suoi canali verso il centro dove viene espulso; da qui attraversa un terzo elemento detto statore, che ha il compito di guidarlo nella maniera più efficiente possibile, e infine viene poi ricatturato dalla pompa per ricominciare il ciclo.
Ricapitolando: nella pompa il fluido segue il percorso centro-periferia, nella turbina periferia-centro.
Per capirlo, dobbiamo tornare ai canali presenti nella pompa e nella turbina e ragionare sulla loro forma.
Infatti, il fluido spinto nei canali della turbina subisce una deviazione, e per le leggi della fisica, se si vuole cambiare la direzione di un corpo (liquido, solido o gassoso non ha importanza) in movimento bisogna applicare una forza, e Newton ci insegna che ad ogni forza ne corrisponde una uguale e contraria.
Così come i canali della turbina deviano il fluido (precedentemente energizzato dalla pompa mossa dal motore), il fluido deviato esercita una forza sulle palette sulla turbina…e finalmente la mette in rotazione, insieme al cambio e alle ruote motrici.
Lo scambio di forze tra pompa e turbina, attraverso il fluido, è tale che a basse coppie e alte velocità in entrata del dispositivo corrispondono alte coppie e basse velocità in uscita: da qui il nome di convertitore.
Ultima funzione che interessa il convertitore di coppia è il “parcheggio”. A motore fermo, a differenza di un cambio manuale in cui lasciando una marcia inserita si ottiene il bloccaggio delle ruote, in un cambio automatico del tipo illustrato viene meno qualsiasi forma di collegamento rigido tra cambio e motore (il fluido è a riposo e non può esercitare alcuna forza) lasciando, di fatto, le ruote della vettura libere. Per questo motivo nei veicoli con cambio automatico è prevista una apposita funzione di parcheggio (identificata sul selettore dalla lettera “P”) che blocca meccanicamente, tramite un perno, la trasmissione.
Come in una trasmissione manuale, la frizione trasferisce il moto al cambio, qui il convertitore di coppia trasferisce il moto al complesso dei rotismi epicicloidali.
Per “rotismo epicicloidale” si intende un sistema di ruote dentate composto da tre elementi: i satelliti, il sole e la corona.
I termini sono dovuti alla loro disposizione “astronomica”: al centro abbiamo la ruota dentata detta sole o pignone, circondata da due o più ingranaggi (i satelliti), montati su un organo porta-satelliti detto planetario; il tutto è posto all’interno di una anello circolare, la corona, con i denti posti internamente.
Il rotismo epicicloidale è un dispositivo ingegnoso: il sole è a contatto solo con i satelliti i quali ingranano solo con la corona, mentre non vi è ingranamento tra sole e corona.
Ognuno dei componenti può essere sia quello di ingresso del moto, sia quello di uscita , o essere mantenuto fermo: la scelta di un ruolo per ciascuno di essi determina, in ultimo, il rapporto di trasmissione adottato durante il funzionamento da un cambio automatico.
Tale scelta è affidata ad un sistema di freni che agiscono, a seconda dei casi, sulla corona, sul sole o sul planetario, e talvolta anche mediante l’uso di frizioni (di solito multidisco) che rendono solidali tra loro due di questi tre elementi: infatti, bloccando la corona esterna con l’ingresso applicato al pignone e l’uscita sul planetario si ottiene un rapporto di riduzione (velocità di uscita minore di quella di entrata, in pratica un marcia “corta”), mentre bloccando il pignone, con l’ingresso al planetario e l’uscita alla corona, si ha un rapporto di moltiplicazione (una marcia “lunga”, detta anche overdrive); infine, con il planetario fermo, l’ingresso al pignone e l’uscita sulla corona, si ottiene una riduzione ma con una rotazione invertita, cioè la retromarcia.
I cambi automatici hanno un numero di marce che va da 4 a 7, più la retro. Ciò è possibile collegando in serie più rotismi, con ogni planetario solidale al pignone successivo, realizzando un gruppo compatto, capace di molti rapporti di trasmissione e con gli assi di ingresso e uscita allineati.